Le masche e i suoi vini tra storie di fattucchiere e realtà agricola
Giovane, caparbio e con un profondo legame con il suo territorio. Lorenzo Simone ha l’entusiasmo della gioventù, glielo leggi negli occhi e lo capisci dalle sue parole. La determinazione di fare il vignaiolo seguendo le orme del nonno e una visione imprenditoriale chiara, ne fanno un esempio da seguire per le nuove generazioni. Di Lorenzo mi ha colpita molto il suo attaccamento alle radici canavesane, così viscerali da decidere di intitolare la sua azienda e i suoi vini alle masche, quattro donne (Antonia, Francesca, Bonaveria e Margarota) che nel 1474 furono condannate al rogo dall’inquisitore Francesco Chiabaudi perché accusate di stregoneria. Le “masche” in piemontese erano considerate una sorta di fattucchiere, perché grandi esperte di erbe, spezie e unguenti, anticamente utilizzati come rimedi medicamentosi, che pur avendo grandi proprietà curative e benefiche venivano spesso percepiti come pozioni magiche delle quali sospettare e che potevano avere effetti dannosi e letali se utilizzati male in combinazione tra loro. Cosa che infatti accadde ai figli del podestà, che pare morirono a causa di alcuni medicamenti utilizzati da due delle masche (Antonia e Francesca) per tentare di alleviare i dolori di questi, portando l’inquisitore – dietro richiesta del podestà – a sottoporre le donne alla pena esemplare del rogo pubblico. Nel 1475 Bonaveria risultava ancora incarcerata mentre Margarota riuscì a salvarsi evadendo dalle carceri del castello di Rivara.
La scelta di Lorenzo di dedicare le etichette dei suoi vini alle martiri levonesi è pregevole ed emblematico del patto che ha stretto con il suo territorio.

Azienda vinicola Le masche a Levone
“Dieci anni fa giravo nel canavese con il mio furgoncino carico delle mie bottiglie e tornavo a casa senza averne venduta neanche una. Oggi sono i miei clienti a chiamarmi e il 60% dei miei vini lo vendo proprio qui, nel mio canavese”.
A Levone trent’anni fa la viticoltura era quasi inesistente, le vigne erano talmente improduttive da essere definite “bianche”. I viticoltori erano quasi tutti hobbisti. Dai gestori di bar e di hotel ai commercianti di ogni settore, tutti lavoravano dal lunedì al venerdì con la gente locale, e il weekend spesso ci si riposava perché non c’era turismo. Negli anni con la crisi del lavoro si è guardato oltre il proprio orticello, cercando di capire come attrarre i turisti puntando anche e soprattutto su una nuova viticoltura e all’enoturismo. Questi dieci anni di vendemmie hanno costituito un percorso veloce partito dalle vinificazioni a cielo aperto con vigne vecchie che sapevano di storia ma anche stanchezza. Quelle stesse vigne scapigliate sono diventate vigne con un’impronta moderna.
Erbaluce? No, siamo fuori dal territorio della D.o.c.g. e del distretto dei laghi.
Nebbiolo, Freisa, Chatus, i vitigni più rappresentativi di questa porzione di Canavese. Non esisterebbero i grandi Barolo e Roero se non ci fossero altre grandi denominazioni di prossimità. L’identità piemontese nasce da quei territori minori che sono fondamentali e hanno reso possibile anche il successo degli altri grandi vini. Cortina di ferro naturale, passato il Po cambiano la geologia e la cultura viticola. Nel Canavese la madre montagna abbraccia le vigne proteggendole grazie a un anfiteatro morenico fatto di terreni di origine glaciale, vulcanica, argillosa che donano vini espressione di un grande areale.
Lorenzo – con il contributo dell’agronomo e giornalista enogastronomico Alessandro Felis, dell’enologo Gianpiero Gerbi e del sommelier Lorenzo Labriot di Wild Wine Tours – ci ha guidati in un percorso di degustazione delle nuove annate del Gaiarda, il suo Canavese Nebbiolo d.o.c.

Alessandro Felis, Gianpiero Gerbi, Lorenzo Simone
Le annate degustate: 2021, 2019, 2018, 2017, 2016, 2015
Una vera fortuna aver potuto degustare in calici Zalto Denk’art in cristallo soffiato a bocca, senza piombo, che permettono di potenziare tutte le caratteristiche percepite del vino analizzato e di vivere un’esperienza quasi olistica.
Ritengo un vero privilegio poter assaggiare delle nuove annate, perché una verticale consente di scoprire tutte le potenzialità di evoluzione di un vitigno godendo di ogni sua piccola sfumatura organolettica. E il Nebbiolo canavesano ha una peculiarità che accomuna quelli del Basso Piemonte – le temperature fresche – date dall’altitudine e dalla conformazione geologica, che si traducono in gradazioni alcoliche più contenute e una maggiore carica antocianica con la risultanza di un rosso vivido e intenso e non scarico come quello caratteristico dei Nebbioli dell’Alto Piemonte. L’innalzamento delle temperature e le bolle di caldo sono infatti un elemento di forte stress per il Nebbiolo, che è solitamente l’ultimo vitigno ad essere vendemmiato.
Quando si parla di vino sembra tutto programmabile in cantina, ma è la natura che comanda in cui l’evento grandigeno potrebbe rovinare un’annata, e la selezione di gemme, germogli, palizzatura, sono tutte pratiche importanti per prevenire o contenere i danni.
In Canavese nonostante siccità e grandine, che mettono a dura prova i vigneti, la sintesi antocianica è molto alta e nel bicchiere si ottengono Nebbioli con una trama tannica fitta ma con una grande freschezza, che richiama l’assaggio a ogni sorso.
Siamo partiti da un’anteprima 2021, il Roccia, che nonostante l’annata complicata tra caldo e grandinate, ha mantenuto una buona freschezza.
Si sono poi susseguite in sequenza le degustazioni del Gaiarda, dal 2019 al 2015 in un crescendo evolutivo a ritroso negli anni.
Il 2019 affinato 18 mesi, ancora giovane, sviluppa sentori erbacei con frutta molto presente.
Il 2018 con una maggiore evoluzione ha una struttura tannica più fitta e lunga, ma spigolosa, in cui i tannini sono ancora in fase di fidanzamento e non ancora uniti in matrimonio. Va ancora atteso perché può crescere e migliorare col tempo.
Il 2017 è stata un’annata molto calda e siccitosa dalla quale la frutta matura, cotta, e l’accumulo indiscriminato di tannini più che di colore hanno avuto la meglio. Un dettaglio rilevante è l’assaggio da bottiglie di Magnum, che è quasi sempre la migliore delle esperienze possibili per la maggiore complessità che ne deriva a fronte di un miglior rapporto tra volume di vino e superficie esposta all’ossidazione.
Nel 2016 si avvertono non solo la frutta matura ma anche i sentori terziari e balsamici con una maggiore struttura e un tannino equilibrato.
Abbiamo terminato con una magnum di 2015 che, nonostante l’affinamento mantiene quella freschezza di base che accompagna i Nebbioli di questo terroir del Basso Piemonte.
Da anni nel Canavese si parla di rimettere mano ai disciplinari perché la strada del monovitigno, sempre più perseguita, serve per salvaguardare vitigni tipici e autoctoni di grande interesse, che diversamente non possono essere citati in etichetta. Basti pensare alla denominazione Colli Tortonesi, per la quale se non fosse stato menzionato il Timorasso, probabilmente questo vitigno non sarebbe mai rinato.
Lorenzo e la sua famiglia ci hanno offerto anche una degustazione di prodotti tipici del territorio, con i quali sono soliti accogliere gli ospiti nella loro azienda. L’enoturismo è un’attività sulla quale stanno puntando molto e che accomuna anche il lavoro di tutti i colleghi di Lorenzo, che hanno fatto squadra creando l’associazione Giovani Vignaioli Canavesani, in costante fermento tra iniziative di promozione territoriale ed enoturistica.
Vi invito a visitare l’azienda di Lorenzo, ad assaggiare i suoi vini dopo un suggestivo percorso tra i suoi vigneti alla scoperta di quel Canavese che ha voglia di mostrarsi al mondo.
Azienda agricola Le Masche, Via Rivara 15 – Levone (TO)
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